Introduzione alle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1974)

W. Binni, Introduzione a Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, Garzanti, 1974, pp. VII-XLII; poi in Id., Le ultime lettere di Jacopo Ortis in Aa. Vv., Letteratura e critica-Studi in onore di Natalino Sapegno, a cura di W. Binni ... et al., vol. IV, Roma, Bulzoni, 1977, pp. 393-418 e in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., pp. 92-120.

Introduzione alle «Ultime lettere di Jacopo Ortis»

Storia del libro.

L’Ortis è un libro che si presenta come composto a strati, abbozzato, scritto e riscritto in epoche diverse: da ciò derivano in parte anche certi suoi sbalzi di tono, certa impressione di suture non sempre riuscite, l’impressione di un meccanismo narrativo non privo di incongruenze e di difetti, dato che per il Foscolo esso era insieme un’opera narrativa e un’opera autobiografica in cui egli si sentiva in diritto di immettere nuove riflessioni e nuovi aspetti del personaggio-autoritratto.

Ideato nel 1798 a Bologna, sulla scorta forse di un precedente tentativo romanzesco autobiografico addirittura del 1796 (l’enigmatico Laura, lettere) e certo confortato da componimenti in versi elegiaco-narrativi di quel periodo, l’Ortis – interrotto poi dall’arrivo in Italia delle truppe austro-russe e dalla partenza del Foscolo da Bologna – si presenta, in quella sua prima forma incompiuta (che giungeva sino alla partenza di Jacopo dai Colli Euganei), come un romanzo piú fortemente dominato dalla storia sentimentale-amorosa in un clima di netto allontanamento dalla politica per la delusione del trattato di Campoformio e in un clima idillico-elegiaco fortemente poeticizzante (donde la grande massa di citazioni poetiche e quasi una scarsa fiducia nello strumento della prosa poi tanto piú chiaramente impiegata) in cui la scarna vicenda si configura come la storia molto «romanzesca» di un amore infelice e impossibile, acceso da una specie di attrito di sentimenti amorosi e altruistici di «anime belle» in cui si configurano un po’ tutti i personaggi, a cominciare dalla buona e matronale Teresa (dietro c’era l’amata Teresa Monti), bonaria e materna, divisa tra l’affetto per la figlioletta (avuta da un vecchio marito al cui ricordo è comunque devota), la crescente attrazione per il singolare Jacopo, e l’amore sincero per Odoardo (rappresentato qui come pittore, come uomo schietto, leale, appena viziato da una certa pedanteria); mentre i particolari di piccolo realismo (in gran parte mutuato dal Werther, la cui influenza è particolarmente forte, non solo per questi elementi, nell’Ortis 1798) creano una temperie meno tesa e violenta e un certo contrasto fra questo contesto e le riflessioni e meditazioni di Jacopo già ribollente del suo profondo pessimismo esistenziale.

Quando il Foscolo riprese il suo romanzo nel 1801 (sollecitato anche dalla conoscenza di una infelice continuazione del suo libro ad opera di un mediocre letterato, Angelo Sassoli, che l’aveva completato per le esigenze dell’editore bolognese Marsigli, forse utilizzando appunti lasciati dal Foscolo), tutto venne sottoposto ad un deciso raddrizzamento drammatico – che risente anche di una forte presenza dell’Alfieri – e ad un modulo di netto contrasto fra passione e ragione, fra personaggi infelici ed alti e personaggi mediocri e calcolatori, come l’odioso Odoardo, mentre gli elementi meditativi vengono approfonditi e meglio raccordati con il procedere della vicenda: cosí, solo per esempio, il brano sulle illusioni che si trova nella edizione dal 1802 in poi alla lettera del 15 maggio, giustificato narrativamente dal bacio di Teresa, nel romanzetto del 1798 era nelle primissime pagine e in un contesto di edonistico compiacimento della bella consolatrice natura mentre Jacopo si bagna nel laghetto dei cinque fonti.

E l’elemento politico traumatico si precisa in una diversa direzione di disperazione che solo inizialmente sembra forzatamente evitato, ma è sempre pronto a riaccendersi violentemente. Il ritmo si fa piú scandito drammaticamente. Teresa (ora fanciulla e certo arieggiante la bionda Isabella Roncioni) si rivela presto infelice e vicina nelle idee e nei sentimenti a Jacopo, mentre in netto contrasto Odoardo diviene un personaggio meschino, autoritario, bassamente calcolatore, e quindi tipico esempio di coloro che non seguono che la fredda ragione e dunque «scellerato, e scellerato bassamente». Libero poi dalle maggiori difficoltà non sempre ben sanate fra la redazione del 1798 e il suo raddrizzamento drammatico, il Foscolo dava la massima spinta agli elementi disperati del suo animo nella seconda parte interamente nuova.

Ma se l’edizione del 1802 è senza dubbio quella che storicamente e personalmente piú corrisponde alla bruciante, disperata necessità autobiografico-narrativa del Foscolo, alla novità ed effettiva avanguardia della sua prospettiva letteraria proprio all’inizio del secolo («il libro del mio cuore»), e costituisce la base della successiva attività foscoliana, l’Ortis rimaneva per il Foscolo un libro in certo senso aperto, cosí «suo» da essere ben suscettibile di ripresa e di modificazioni alla luce sia della sua maturata esperienza artistica che della evoluzione della sua intera esperienza vitale, politica, ideologica. Il Foscolo, pur mantenendone le linee e la struttura essenziali, sentiva di potervi immettere nuovi elementi della sua concezione vitale, di apportarvi aggiunte e modifiche. Come egli fece soprattutto nella edizione zurighese del 1816 – presentata per ragioni di opportunità come londinese del 1814 – in cui egli cercava di meglio motivare il meccanismo narrativo e il rapporto fra l’elemento amoroso e quello politico e insieme evidenziare ancor piú chiaramente la sua posizione antinapoleonica e l’intreccio fra la cupa, fatalistica meditazione sulla servitú dell’Italia e un suo pertinace e piú spiegato e moderato-realistico piano politico (evidentemente alla luce delle sue nuove esperienze dopo il crollo di Napoleone e del Regno Italico e nelle condizioni della Restaurazione), come avviene soprattutto nella importantissima lettera del 17 marzo 1798 che mancava del tutto nell’edizione 1802 e che il Foscolo si sforzò di fare apparire come già scritta e pubblicata in un’edizione inesistente pure del 1802. Il fatalismo realistico veniva cosí accentuato e, in un lavoro di correzioni assai minute e profonde, il Foscolo veniva (non senza qualche ulteriore contraddizione) da una parte accrescendo il suo pessimismo fra realistico e fatalistico, politico, ideologico, esistenziale, dall’altra sviluppando una certa direzione piú spiritualistico-religiosizzante: apertura che – pur con spiragli di minore aggressività nel tema religioso – finiva in realtà per convergere col pessimismo nel sentimento di un alone di mistero e di fatalità.

Basti ricordare da una parte la breve, fulminea aggiunta cosí preleopardiana, nella lettera del 17 aprile 1798, che alla frase sulla «Natura, madre benefica ed imparziale» replica «la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?»; dall’altra l’inserzione, pur ambigua, della precisa indicazione del Cristo («E il tuo Figlio Divino non si chiamava egli il Figlio dell’Uomo?» nella lettera All’alba nella fine della prima parte), mentre nella lettera del 19 gennaio 1798, alla sorte caduca dell’uomo viene ora direttamente assimilata (non messa in contrasto) quella del Sole e quindi di tutto l’universo («Godi intanto della tua carriera, che sarà forse affannosa, e simile a questa dell’uomo; tu ’l vedi...») in una visione che si è fatta tanto totale, universale, misteriosa e fatale nel brano che Lorenzo riporta nella sua narrazione con la data 20 marzo 1799 e che è tradotto dallo scritto di Pascal Contre l’indifférence des Athées («Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia... Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo»), dove il mistero dell’esistere si affaccia implacabile: inesplicabile, senza la risalita di persuasione eroica, di doverosa lotta per la verità e l’«util comune» con cui il Leopardi della Ginestra si farà ben diverso promotore di una civiltà e società nuova, severamente umana e fraterna. Finalmente nel 1817 il Foscolo riprendeva ancora «il libro del suo cuore» e lo sottoponeva ad un’ultima revisione che non porta modificazioni strutturali e ideologiche e si limita ad una revisione linguistico-stilistica piú armonica ed equilibrata, ma sempre nell’ambito dei toni accesi, intensi, fino all’assunzione oratoria della redazione fondamentale del 1802.

L’«Ortis» «libro aperto» nello svolgimento foscoliano.

Quanto abbiamo detto sulla storia di elaborazione dell’Ortis (e che andrebbe integrato con alcuni documenti essenziali di autointerpretazione del suo libro, della sua genesi, dei suoi motivi, dei suoi effetti qual è soprattutto la Notizia bibliografica intorno alle «Ultime lettere di Jacopo Ortis», scritta per l’edizione zurighese del 1816) porta ad alcune essenziali indicazioni; soprattutto il carattere di libro aperto dell’Ortis durante lo svolgimento foscoliano e la sua costruzione a strati, che, malgrado gli sforzi foscoliani di giungere a una redazione conclusiva e organica, non può non ritenere in sé tracce evidenti di momenti diversi dello sviluppo dell’uomo-scrittore e tanto piú motivare anche le ricche e fertili contraddizioni che il lettore vi avverte. Sicché è divenuto giudizio comune il giudizio dell’Ortis come opera caotica, contraddittoria, priva di una sicura armonica circolarità artistica, quasi piú documento autobiografico in movimento che opera d’arte. E tuttavia non val piú questo libro contraddittorio fermentante di germi fecondi, di contraddizioni fertili che non un’opera tutta equilibrata, distaccata, catarticamente perfetta? Il Foscolo non ha voluto tagliare il cordone ombelicale che lo lega al suo personaggio e alla situazione romanzesca.

Anzi, a ben guardare, e specie nei confronti del momento essenziale del 1802 quando il libro ebbe la sua costituzione piú importante, il fascino dell’Ortis, anche per un lettore moderno, consiste proprio nella sua natura dirompente, esplosiva, persino scomposta, ma cosí autentica, ardente, fermentante di motivi colti nella loro potenzialità nascente, nella loro deflagrazione inquieta e a volte sin torbida e farraginosa, vivissima e quanto mai lontana da ogni levigata nitidezza e artistica misura e purezza.

Proprio la sua «impurità» ci parla tanto piú fortemente come tutte le cose vive e sofferte; né d’altra parte può veramente dirsi che l’Ortis sia un puro coacervo di impulsi privi di ogni rapporto e di ogni direzione di poetica: proprio una poetica di espressione totale, di espressione in forme di rottura, di apertura, di «smisuranza», cosí fortemente romantica specie di fronte alle forme piú educate e accademiche di tanta letteratura colta e perfetta della nostra tradizione.

Ed è chiaro che, partendo da questo carattere di «impurità», perdono valore anche i dissensi piú formalistici, il rifiuto e l’incomprensione delle ragioni della sua enfasi esaltata e di certe pieghe piú edonistiche e di gusto neoclassico ed estatico.

Il contrasto, l’ingorgo, l’attrito e la sollecitazione problematica fanno parte integrale della «poetica» ortisiana e da qui bisogna partire anche per definirne la singolare posizione di fondo, per capirne la significatività storica e storico-letteraria.

È chiaro cosí che estremamente fuorviante è la ricerca e la descrizione esauriente di una posizione tutta esplicita come può essere – pur nel suo carattere sturmundranghiano – quella del Werther goethiano e ricavarne un assoluto, deciso ritratto del letterato italiano «disperato passivo», puntando ad esempio su qualche frase tolta dal suo complesso e complicato contesto interno e storico-personale-esistenziale.

Certo Jacopo afferma a un certo punto che «egli non è sí matto da presumere di riordinare i mortali» (lettera da Bologna, 12 agosto 1798), ma quale vero senso prende tale affermazione nella situazione del personaggio per tanta parte autobiografico? Significa il rifiuto dell’utopia politico-sociale come sola via in quel momento storico per saltare oltre la realtà storico-sociale contraddistinta dalla formazione della borghesia cui il Foscolo non intende collaborare e che d’altra parte egli vede – dopo le trascinanti spinte del suo giacobinismo piú acceso e frustrato, del suo rousseauismo – come la spinta della storia del suo tempo[1].

Si noti infatti come la vicenda di Jacopo sia una ricostruzione diversa e alternativa rispetto a quella reale del Foscolo che, negli anni seguenti al trattato di Campoformio, non si rifugiò sui Colli Euganei (lo fece semmai nel periodo precedente alla instaurazione della repubblica democratica veneta) e non si allontanò affatto dalla vita politica e cercò invece di tamponare la ferita profonda di Campoformio collaborando attivamente come oratore e giornalista «giacobino» a Milano e a Bologna, per poi prendere le armi e combattere nel 1799-1800 contro gli insorgenti e gli Austriaci. La vicenda del romanzo invece torna indietro e prospetta quegli anni cosí attivi solo alla luce dello scacco ingigantito di Campoformio e nella direzione della disperazione dell’esule perseguitato e deluso, riportando in quello stato d’animo esulcerato-catastrofico le ulteriori delusioni sofferte dal Foscolo nell’intensa, accanita attività politica, da lui realmente vissuta. Sicché, pur nel legame profondo tra l’autore e il suo personaggio, c’è anche uno sdoppiamento che va adeguatamente calcolato nella volontà foscoliana di creare una vicenda drammaticamente esemplare dell’impossibilità di vivere in «certi tempi» in una patria tradita, «trafficata», asservita.

Lo sdoppiamento Foscolo-Ortis è tra un intellettuale collaboratore-critico del potere napoleonico e un intellettuale disperato e testimone estremo che ha il doveroso compito di «scrivere», di portare, scrivendo – secondo la lezione finale del Parini nel suo colloquio con Jacopo –, alla coscienza degli Italiani il succo estremo della propria disperazione. Perciò dicevamo che è errato ricavare dall’Ortis l’idea di un Foscolo tipico letterato italiano «disperato passivo», rinunciatario, fondandosi, ad esempio, sulla frase ricordata che Jacopo pronuncia nella lettera del 12 agosto 1798.

Infatti da una parte la disperazione suicida dell’autoritratto ortisiano (artisticamente drammatizzato) non si può interpretare completamente in tal senso alla luce di quella espressione estrapolata dal contesto di volizioni attive e sganciata dal significato autodistruttivo-eroico dello stesso suicidio; mentre dall’altra parte, nella dinamica generale dell’intellettuale storico, l’intera figura dello scrittore non può ridursi all’estrema proiezione di se stesso nel personaggio drammatizzato in Jacopo: si pensi infatti al seguito della vita foscoliana, cosí gremita di tentativi di partecipazione critica alla storia del proprio tempo e a tutto lo sviluppo della tematica del poeta dall’ode All’amica risanata fino alle Grazie e fino all’estrema attività critica.

E se è indubbio che l’edizione 1817 rappresenta l’ultima volontà dell’autore, deve pure esser ribadito che l’Ortis – mentre esprime aspetti fondamentali e costitutivi del Foscolo mai interamente scomparsi e sempre pronti a riaffiorare sotto la ricerca di espressione di altre sue componenti, come quella didimea (ma Didimo è per l’autore un Ortis «piú disingannato che rinsavito») – corrisponde soprattutto e anzitutto ad un autoritratto foscoliano trasposto nel personaggio protagonista e a un tipo di convulsa e complicata esperienza e a una direzione di poetica e necessità espressiva caratteristici della zona 1801-1802. Sicché l’Ortis rimane un libro di gioventú, un’opera di apertura e di base rispetto al lungo svolgimento personale e poetico successivo del Foscolo, un capolavoro giovanile che della gioventú d’una eccezionale personalità creativa mantiene i caratteri essenziali ed affascinanti di inquietudine formativa, di esplosione di temi, motivi e sino stilemi su cui lo scrittore lavorerà entro nuovi cerchi di esperienza vitale, storica, culturale, letteraria, tanto superando i livelli artistici dell’Ortis, ma mai superando veramente la forza esplosiva di quel grande libro di testimonianza, di denuncia, di protesta, di disperazione entro cui insieme si fa luce l’ansia inesausta di vita, di impegno, di lavoro poetico e culturale.

A capire l’Ortis anche nella distinzione che tanto assillò il Foscolo maturo dal Werther (cui l’opinione comune tanto l’accomunò sí che Stendhal parlava del libro foscoliano come di una brutta imitazione del giovanile romanzo goethiano), ci si rivolga anzitutto alla distinzione sul significato del suicidio nei due romanzi come venne formulata dal Foscolo nella Notizia bibliografica: il suicidio è nel Werther «quasi malattia crescente, incurabile di certi individui», mentre nell’Ortis è «rimedio di certi tempi». Certo la formula foscoliana è imperfetta, ché pur nell’Ortis il suicidio è legato anche ad una condizione temperamentale del protagonista-alter ego dell’autore, un «rimedio» al suo dramma di traumatizzato, ma anche di nevrotico incentivato (senza con ciò accedere a intere spiegazioni dell’Ortis in unica chiave psicanalitica) dalla perdita precoce del padre e dall’infelicità dell’infanzia, da un senso di sprotezione e da un contrasto fra vitalità e una profonda attrazione sepolcrale. Ma anche questi dati piú strettamente personali sono inseriti in una situazione di crisi storica di cui il Foscolo ebbe acuta coscienza e che però egli vide come prima, essenziale causa del suicidio eroico, atto autodistruttivo-affermativo di suprema contestazione dei tempi che traumatizzano e ledono profondamente l’ansia di vita e di impegno del personaggio.

Cosí l’Ortis trova il primo livello di interpretazione da parte nostra in una chiave storica con le sue implicazioni politiche, filosofiche, esistenziali. La sua malattia mortale è una malattia storica, come ben indicò genialmente già il De Sanctis, che pur non la approfondí in tutti i suoi anelli raccordati e inseparabili. Ed ecco: una crisi totale con al centro il dramma etico-politico del personaggio in «certi tempi»: i tempi della delusione e dello scacco giacobino (né questo fu solo alla base dell’Ortis, ché, in altra situazione, esso fu pure molla profonda della grande poesia di Hölderlin).

Posizione storico-ideologica.

Tutt’altro che facile è precisare la posizione di fondo dell’Ortis, tanto forte (ed essenziale) è l’ingorgo di spinte e controspinte che vi si accumula intrecciando i risultati di esperienze vissute dal Foscolo con proiezioni nel personaggio delle sue riflessioni originali, della sua cultura filosofica e storica in crescente aumento sulla base iniziale di un piú forte rousseauismo che, mentre è già elemento di reazione preromantica contro una rigida concezione illuministica interamente fiduciosa nella «ragione», viene messo in discussione sotto la pressione crescente di elementi del pensiero del Machiavelli, dell’Hobbes, del materialismo meccanicistico di La Mettrie e di Holbach, nonché di suggestioni dello storicismo vichiano che a loro volta si urtano con la lezione eroico-pessimistica alfieriana[2], con la presenza esemplare della virtú antica di tipo plutarchiano. Mentre, anche in sede piú direttamente politica, idealismo e realismo si urtano e conflagrano in un incandescente dibattito tormentoso e alla lunga insostenibile e necessitante della soluzione suicida, che riporta il personaggio nella zona piú pura e sicura del possesso di sé fuori della realtà cosí irta, assurda, conflittuale, mal dominabile con l’azione resa impossibile dai tempi e con la sterile saggezza filosofica e razionale, messe in crisi da obbiettive ragioni storiche e dalle stesse passioni divoranti del personaggio, di cui egli sente insieme il valore vitale (il cuore, il sentimento sono pure le forze piú autentiche e rinnovatrici, di fronte al calcolo basso e scellerato, alle meschine, perfide, ipocrite norme della vita associata in un urto di egoismi feroci: «la Terra è una foresta di belve», secondo l’espressione della lettera da Ventimiglia) e la forza distruttrice, indomabile, non assoggettabile a nessuna forma di superiore saggezza.

Quale può essere comunque una approssimativa identificazione della posizione dell’Ortis e del personaggio insieme costruito e nato dalle stesse esperienze e aspirazioni del suo creatore?

Foscolo all’altezza dell’Ortis non ha piú le certezze del periodo «giacobino» precedente, quando egli si era portato assai avanti nelle sue posizioni politiche, civili e sociali (salda certezza nella sovranità popolare, certezza nella possibilità di un’educazione politica del popolo, richiesta della legge agraria, nella prospettiva di una repubblica italiana unita e indipendente, rivoluzionata rispetto alla situazione italiana prerivoluzionaria). Queste certezze erano entrate in crisi nelle dure esperienze di quegli anni, non solo a causa dell’emblematico trattato di Campoformio, ma a causa della politica direttoriale e napoleonica francese sempre piú volta a considerare l’Italia come terra di conquista, di sfruttamento e oggetto di scambio nella lotta con le potenze reazionarie, sempre piú volta a favorire nella stessa Repubblica Cisalpina i vecchi ceti dominanti e sempre piú ostile agli scomodi patrioti-giacobini, mentre la stessa lotta fra Italiani diveniva per il Foscolo (che pur aveva combattuto contro le bande degli insorgenti) un trauma profondo e una conferma pessimistica sulla difficoltà di unificazione e costruzione nazionale, che pure rimaneva il suo obiettivo politico primario, fino a divenire una specie di nuova religione con i suoi «martiri» e a farsi dominante, in forma persino eccessiva, di fronte alle sue piú generali istanze internazionalistiche.

L’Ortis è cosí il libro disperato e oracolare della sorte italiana e il nazionalismo predomina e subordina a sé le altre esigenze politiche e sociali piú generali, non senza un persistente dibattito angoscioso sia sulla posizione degli Italiani piú consapevoli e appassionati per la sorte della loro patria, sia sulla politica in generale e sulla problematica politico-sociale. Cosí Jacopo, mentre proietta al massimo l’istanza nazionale e insieme avverte drammaticamente la sua individuale impotenza (si pensi al colloquio con il Parini in cui il giovane insiste sul dovere della lotta e il vecchio poeta, rivisto in una luce ben ortisiana, gli dimostra l’impossibilità della lotta stessa pur incitandolo a scrivere e a testimoniare; si pensi al grido lacerante nella lettera da Ventimiglia: «ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce?»), risente cupamente il contrasto fra la volontà di rinnovamento rivoluzionario-nazionale, la necessità della violenza, della forza e sin del «terrore» per attuarlo, la degenerazione della libertà «in licenza» e la fatale ricaduta da questa in forme di dispotismo autoritario. E cosí – mentre vagheggia una repubblica anche socialmente giusta (ai contadini del paesetto sui Colli Euganei legge non a caso le vite plutarchiane di Licurgo e Timoleone) ed esplode in invettive contro i patrizi, contro i ricchi, contro «le possessioni» unica garanzia di considerazione e di prestigio, si piega inorridito sulle ingiustizie subite dai poveri – insieme constata l’impossibilità di cambiare la natura degli uomini e della società e ripiega, fra accettazione e ricerca di una via percorribile, sulla soluzione moderata di una società fatta di piccoli proprietari terrieri: una soluzione che già nel periodo giacobino aveva affacciato nell’idea di una «mediocrazia» e che all’altezza della edizione dell’Ortis del 1816, nella lettera del 17 marzo, sarà saldata (fra volontà realistica e margine di chiara utopia) a una mediocrazia fondata senza violenza e senza «legge agraria».

Nell’insieme l’Ortis corrisponde a una collaborazione divisa e frenante (fra echi persistenti rousseauiani e istanze realistiche) con la classe borghese tesa a ridurre al massimo il prepotere della classe aristocratica, ma, nel contempo, a considerare con paternalistica superiorità le classi subalterne finché queste non vengano a far parte della borghesia nell’acquisizione della piccola proprietà terriera. Di tale funzione (non chiara e scossa da fremiti umanitari e ribelli piú fondi, e lontana dalla logica borghese del profitto ed accumulo) può esser indice la stessa configurazione sociale del protagonista, nato da antica famiglia legata al possesso della terra, anche se – in contrasto con l’aborrita nobile «gentaglia» – spesso presentato come povero e sprovveduto di mezzi, in una delineazione ambigua che par corrispondere alla scarsa chiarezza di analisi sociale giustificabile in un periodo socialmente ancora incerto in Italia e preso fra la logica della classe borghese in formazione e ideali incerti, fra le spinte rivoluzionarie e i richiami nostalgici di una vecchia società patriarcale, terriera, e rousseauianamente avversa alla «convoitise».

Dunque situazione di crisi e di assestamento difficile e netto spicco del motivo patriottico unitario e indipendentista che è pur motivo storico valido e legato a ideali promossi dalla grande rivoluzione.

E di crisi ci parla anche la vicenda stessa del romanzo, presa fra la sublimazione della passione e dei suoi diritti e certo moralismo piú tradizionale a cui lo stesso Jacopo e tanto piú Teresa soggiacciono, accettando per buone le ragioni dell’ambigua figura del signor T***, il padre di Teresa, la cui autorità sulla figlia e i suoi sentimenti viene accusata, ma rimane alla fine indiscussa.

Ma la crisi è ancor piú profonda e vale, entro e sotto il cerchio della denuncia e protesta politica, se si guarda agli elementi filosofici-ideologici ed esistenziali di questo libro inquieto e storicamente cosí significativo. Nel trapasso fra Settecento illuministico e Ottocento romantico l’Ortis e il suo personaggio (e l’autore) testimoniano di una crisi ingorgata e drammatica che solo da chi vede il romanticismo come un puro momento di involuzione e di battuta di arresto nella storia può esser giudicata schematicamente reazionaria ed assurda.

A ben guardare, e specie nella prospettiva della storia italiana, l’urto fra una raison geometrica e sterile, decurtante le forze intere degli uomini, e la passione, il sentimento, la fantasia, il sogno, è un urto drammatico profondo nella formazione dell’uomo moderno. Di tale urto e crisi drammatica vissuta con impegno totale l’Ortis è originale espressione e Jacopo soprattutto la vive in tutti i suoi problemi e caratteri. Come pure egli vive la crisi drammatica fra «l’ingenito amor della vita» e l’attrazione della morte («tra la disperazione delle passioni e l’ingenuo amor della vita», dirà il Foscolo nella Notizia bibliografica), fra aspirazioni vitali e un pessimismo cosí forte da presentarsi come la base piú ravvicinata al grande pessimismo leopardiano. Qui si apre anzi la zona piú lacerata e fermentante di problemi e motivi di questo libro la cui forza – sarà bene ribadirlo – è piú di proposta esplosiva di problemi e temi che non di soluzioni e posizioni definite in maniera esauriente e circolare.

Cosí la realtà e la vita umana, che pur sono a volte vitali come salda base materialistica retta da sue leggi ferree (a lor volta accettate razionalmente come tali e che è illusorio eludere e respingere e sentimentalmente avvertite dolorosamente come limite all’espansione libera della personalità), vengono piú profondamente investite da uno sguardo piú acuto che ne mette in discussione la stessa consistenza reale, ne percepisce le condizioni di vanità, di illusorietà, di sogno (si pensi alla lettera bellissima del 19 gennaio 1798 che inizia «Umana vita? sogno; ingannevole sogno al quale noi pur diam sí gran prezzo...»), con aperture modernissime che, mentre scavalcano la loro matrice romantica e sembrano porre i problemi dell’assurdo, si immettono potentemente nella problematica leopardiana a cui quella stessa lettera ora citata offre lo spunto importantissimo dello stolto orgoglio umanistico e antropocentrico di fronte a una natura che «mentre noi serviamo ciecamente al suo fine... ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato».

Cosí la natura romanticamente (e con chiare eredità rousseauiane) tante volte vista nella sua impareggiabile bellezza (sicché la poesia grande sarà quella che piú la ritrae ed imita), datrice di benefici e di illusioni vitali (e al cui centro è il mito del Sole e della luce vitale), vien altre volte (in accordo con gli stati d’animo del personaggio, ma con un raccordo essenziale con il suo profondo pessimismo) configurata, non solo nei suoi esteriori e paesistici aspetti sconvolti, selvaggi, ma nel suo fondamento di crudeltà inesorabile e neroniana.

A misurare la tensione estrema dell’ingorgo di motivi storici, ideologici, politici, esistenziali dell’Ortis ci si soffermi sulla lettera da Ventimiglia (19-20 febbraio 1799) in cui l’elogio del suicidio alla luce di un profondo individualismo e di un attacco durissimo alle fiducie ottimistiche illuministiche e alla stessa posizione rousseauiana dà l’avvio alla meditazione sconvolta-lucida sui confini naturali dell’Italia, inutili a impedire le invasioni straniere, sulla sorte fatale che alterna la potenza delle nazioni, in un alternarsi di forze belluine e sterminatrici che fanno della terra «una foresta di belve», sulla vanità delle «virtú» smitizzate e denudate nel loro significato di azioni utili ai detentori della forza, sulla creazione tutta umana di Dei, strumento anch’essi dei dominatori e vincitori, sulla contraddizione malvagia della Natura che crea gli uomini per farli soffrire e li dota del dono funesto della «ragione» che demistifica l’istinto vitale, sull’impossibilità di trovare, in qualsiasi luogo, «gli uomini diversi dagli uomini», sicché unico rifugio è il ritorno nella terra natale per una morte consolata dal pianto di altri infelici.

Qui storicismo vichiano e meccanicismo materialistico si aggrovigliano fra di loro in un fatalismo disperato e convulso, le speranze illuministiche si consumano insieme alla fiducia rousseauiana (natura-società naturale), il sentimentalismo preromantico si traduce in un moto elegiaco riduttivo, in un coacervo di intuizioni incandescenti che sembrano costituire l’humus germinale della coscienza infelice romantica entro un animo ferito e pur anelante all’altezza della purezza incontaminata e alla superiorità della virtú pur cosí demistificata e denudata. Sicché poche pagine della stessa letteratura europea di primo Ottocento hanno una profondità di accenti cosí forte e tale da far pensare alla meditazione tremenda che Julien Sorel fa in Le rouge et le noir prima di essere giustiziato.

E si guardi come a uno degli elementi essenziali della carica esplosiva del libro alla forza demistificatrice con cui Jacopo-Foscolo aggredisce alcuni degli stessi valori eroici in cui vuole pertinacemente credere. Si pensi a quanto il Parini dice della gloria (cui pure Jacopo-Ugo aspira), si pensi alla lacerante accusa ai Romani (pur cosí esaltati nel neoclassicismo giacobino foscoliano) «ladroni del mondo», si pensi soprattutto (in chiave antiretorica in un libro cosí pieno di appelli oratori) alla demistificazione degli esemplari eroi del «divino» Plutarco: «Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso – umana razza!» (lettera del 18 ottobre 1797).

Il romanzo, i personaggi.

Tutte queste spinte problematiche e meditative (o potremo dire lirico-meditative, ché lievito di pensiero è in questo libro una emozione lirica che trae solido spunto dall’alacrità e tormentosità problematica e meditativa) non vanno però estratte in una specie di «Zibaldone» ortisiano, ma concretamente inserite nello svolgersi di una situazione, di una vicenda, di un personaggio che narra e si confessa e ci si presenta in un dinamico e tormentoso svolgimento, in un suo configurarsi romanzesco-drammatico tutt’altro che meccanico e tutt’altro che statico e solamente ripetitorio e monotono. Dunque l’Ortis è un’opera narrativa, è un romanzo nelle forme acerbe e difficili in cui il Foscolo si trovò a costruirlo senza l’appoggio di una vera tradizione narrativa italiana, con l’impiego vasto di tecniche narrative europee, ma con l’impegno di creare un primo vero romanzo italiano.

Narrativamente la stessa forma del romanzo epistolare (suggerita da tanti esempi tardosettecenteschi e anzitutto dal Werther e dalla Nouvelle Héloïse), in cui le lettere del protagonista narrante si intrecciano con le integrazioni della voce piú calma del corrispondente e presunto raccoglitore delle «ultime lettere», serve molto bene alle esigenze foscoliane sia per la possibilità di una narrazione autobiografica e di confessione tesa e riscaldata dalla destinazione a un corrispondente congeniale ed amico, sia per un singolare tempo narrativo che vuol corrispondere al tempo della scrittura, all’immediatezza dei vari momenti vissuti dal protagonista narrante, ravvivando cosí la forza della narrazione in atto, della confessione immediata, della costruzione della vicenda e del personaggio a mano a mano che essa si svolge e che quello la vive e la soffre e cosí sfuggendo alle esigenze e alle difficoltà di una narrazione continua e oggettiva cui il Foscolo non era preparato e disposto.

Una delle accuse piú frequenti all’Ortis e alla sua meccanica romanzesca è quella delle due «anime»: l’elemento politico e l’elemento amoroso mal collegati fra loro e mal funzionanti nello svolgimento della narrazione e nella causa del suicidio del protagonista. In realtà l’elemento portante è quello politico e il suicidio si giustifica anzitutto per il trauma e lo scacco delle speranze politiche-nazionali di Jacopo: donde la ricordata definizione foscoliana del suicidio ortisiano come «rimedio di certi tempi». Ma – mentre lo stesso elemento politico è, come abbiamo detto, a sua volta gravido di tanti altri elementi delusivi e di tanti altri traumi del protagonista – l’elemento amoroso (di per sé certo piú debole e gravato da remore moralistiche come da residui piú edonistici di gusto rococò) non comporta una vera contraddizione o una giustapposizione forzata e senza credibilità. E se – come ben vide il Foscolo nella sua Notizia bibliografica – è necessario alla vicenda e alle sue motivazioni e articolazioni, esso è ancora un aspetto della vita sentimentale-storica del protagonista in quanto è una «passione» che nobilita e lacera insieme il suo animo romantico, che caratterizza la sua ansia di vita e di bellezza, il suo bisogno di trovare un oggetto degno ed alto della sua prepotente vita sentimentale, qualcosa di puro, di «divino» e «celeste» in una realtà meschina e deludente. E d’altra parte esso ben si raccorda con il ritmo dell’opera e con la sua dinamica di contrastata e alla fine travolgente catastrofe in quanto esso è un elemento a lungo frenante una troppo precipitosa conclusione suicida.

È l’aspetto piú alto di quell’attrazione della vita che contrasta con l’ansia suicida e con gli scacchi politici, storici, filosofici, esistenziali. Certo Jacopo ne avverte presto anche il carattere di ulteriore delusione e infelicità (già nella lettera del 26 ottobre, parlando a Lorenzo della «divina fanciulla», commenterà: «vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale»). Ma a lungo l’amore per Teresa funziona come motivo, seppur tormentoso, di vita, frena l’istinto suicida di Jacopo e solo quando a lui giungerà (al culmine della sua tensione disperata di italiano tradito e impotente, di demistificatore dei vani valori storici ed esistenziali) la notizia delle nozze di Teresa e di Odoardo, l’elemento amoroso convergerà potentemente con tutte le altre sue ferite e delusioni ed anzi le approfondirà e renderà insopportabili quanto piú prima ha costituito di fronte a loro un ostacolo, un freno. Scrive il Foscolo nella Notizia bibliografica: «Notisi dunque che nell’Ortis il vero contrasto sta tra la disperazione delle passioni e l’ingenito amor della vita; e che gli affetti eccitati in lui dalla giovane ch’ei desidera e che non può mai possedere, e dalla patria che ha perduto e ch’egli inutilmente anela di vendicare, somministrano appunto nuove armi alla disperazione contro il naturale orror della morte. Or quando l’autore ha con verosimiglianza ideato o cavato dal vero il contrasto, v’era egli necessità che la politica e l’amore cozzassero? Tanto piú che l’una e l’altro sostengono d’alcuna speranza per diciotto mesi quel giovine disperato: né tutte e due prevalgono a un tempo: bensí l’amore piú lungamente e piú spesso fa quasi dimenticare al cuore dell’Ortis l’altra passione: finché dopo d’avere tutte e due combattuto contro alla disperazione, e non vincono, sono costrette a congiungersi ad essa, e affrettano la catastrofe».

Cosí le cosiddette «due anime» (formula che poi prescinde schematicamente dalla realtà del totale e complesso dramma di Jacopo e della sua natura e situazione storica) non costituiscono un insanabile dissidio fra il romanzo amoroso e il romanzo politico ed anzi l’elemento amoroso funziona positivamente nella meccanica narrativa del romanzo senza predominare e senza alterare la sua base unitaria di narrazione drammatica di una impossibilità di vivere in «certi tempi» e in una situazione personale-storica bisognosa di valori, e delusa in tale sua necessità.

Concepito in un netto contrasto romantico fra passione e ragione, virtú e calcolo, generoso bisogno di alti ideali e meschino conformismo, l’Ortis presenta personaggi a lor modo «positivi» – ricchi cioè di passione e di virtú magnanima – e personaggi nettamente negativi. Da un lato e al centro Jacopo e Teresa, dall’altro soprattutto Odoardo e, dietro di loro, i virtuosi infelici (Lauretta con la sua storia inserita come ricordo commovente, il fedele e schietto Michele, lo stesso destinatario delle lettere, Lorenzo, il tenente cisalpino con la sua vicenda di miseria e di persecuzione, il Parini e l’Alfieri pur solo inutilmente cercato perché chiuso nella sua sdegnosa solitudine). Dall’altro i patrizi ricchi «benpensanti» e insensibili: l’antica innamorata di Olivo e il suo tronfio marito, la frivola dama delle lettere padovane o i despoti che nuotano al potere in un mare di sangue o – seppure in una scalatura attutita – gli stessi poveri attaccati alle leggi crudeli e vili dell’utilità e della proprietà (il contadino che vuol cacciare Jacopo dai campi non suoi e magari la vecchia abbrutita, indigente e pur ferocemente attaccata alla vita).

Una concezione senza vere mediazioni e un giudizio netto e intollerante su cui ora poco incide la compassione «unica virtú non usuraia» che pur tanto dice, in prospettiva, verso una futura concezione foscoliana piú complessa e meditata.

Al centro, dicevo, Teresa e Jacopo: Teresa, appassionata e infelice, vittima di norme e consuetudini utilitarie, rappresentata in tutta la sua luminosa bellezza e delicatezza, partecipe degli ideali politici di Jacopo e della condizione delle donne italiane che vien denunciata seppur non infranta. Certo personaggio piú fragile e alla fine passivo, creazione piú incerta e debole. Laddove la grande creazione del Foscolo è l’oggettivazione insieme vicina e deformata, amplificata del proprio autoritratto: Jacopo è il primo grande personaggio della nostra letteratura e l’aver unito in lui il soggetto narrante e l’oggetto principale della narrazione è chiara novità di questo grande libro.

In lui tutto è coerente, una volta chiarita la sua direzione di personaggio alto, virile, vitale, eroico, ma insieme e perciò (nella sua situazione storica) perseguitato, ferito, traumatizzato, in certo senso nevrotico e consapevole di tal sua natura e di tale sua situazione da cui potrà liberarsi solo con l’atto affermativo-distruttivo del suicidio.

Come deve interpretarsi il suicidio di Jacopo? Atto di suprema affermazione dell’io che si misura e si riconosce in tutta la sua dignità e grandezza nel senso alfieriano? Supremo crollo e fuga inorridita di fronte alla realtà ostile e insopportabile? Esito inevitabile di chi ha puntato tutto sulla passione in ogni suo aspetto (politico-patriottico, amoroso, esistenziale) e la riconosce tradita, frustrata e non accetta il semplice esistere?

Si può dire che tutti questi aspetti convergono nel suicidio di Jacopo, ma che proprio l’accezione alfieriana ne sigla la tumultuosa motivazione facendone un atto esemplare di vita proprio nella disperazione assoluta che caratterizza il fondo dell’Ortis. È un no fremente, convinto, perentorio a una certa forma di vita, di storia, e perciò non soltanto chiude tragicamente il romanzo, ma lo apre, attraverso l’esperienza interamente consumata e sofferta, a un diverso modo di vita cui Jacopo aspira pur non riuscendo a configurarlo con chiarezza. Sicché dietro l’atto del personaggio traspare la figura dell’autore, dell’intellettuale e del letterato, disperato, ma non passivo, il quale, attraverso quel prefigurato atto decisivo, autodistruttivo-affermativo potrà continuare (o riprendere) a vivere, a operare, a scrivere, a collaborare (sempre fra le spinte contrastanti del pessimismo e dell’idealismo e quelle di un realismo nuovo) con la civiltà e con la vita, in una posizione fra appassionata e delusa, ma con l’ardua volontà di avvicinare realismo e idealismo, di creare valori-illusioni volti a sostenere una nuova civiltà di cui lo strumento supremo della poesia elabora faticosamente e tormentosamente i miti pregnanti e vitali, secondo la romantico-neoclassica fede di un Hölderlin per il quale «was bleibt stiften die Dichter» («ciò che resiste lo fondano i poeti»). E sarà la via dei Sepolcri e delle Grazie cui già l’Ortis offre germi essenziali: le illusioni e le passioni magnanime, la religione del passato sollecitatrice di futuro, il valore della tomba consolata dal pianto e stimolo di vita e di eroismo, la ricerca di una difficilissima armonia fra l’uomo e l’universo.

Il ritmo drammatico-narrativo.

L’Ortis è contraddistinto da un forte, trascinante ritmo narrativo la cui intensità va crescendo a mano a mano che nella vicenda prevalentemente amorosa – entro la quale si agita in forme piú episodiche il dramma del protagonista assillato dalla propria condizione di disperazione personale, politica, esistenziale – si precisa la consapevolezza dell’impossibilità di una soluzione positiva del suo amore per Teresa e l’insostenibilità della sua equivoca situazione quando egli sa del prossimo ritorno di Odoardo e della fatalità delle nozze di questo con Teresa.

Nella prima parte il dramma del personaggio, infelice perché tradito nelle sue speranze di patriota e di rivoluzionario ma insieme perché sempre piú persuaso dell’assurdità di una vita senza speranze e, in assoluto, della irrealtà della vita («Umana vita? sogno...»), è provvisoriamente contenuto e attutito dall’attrazione vitale configurata nella bellezza della natura e del paesaggio idillico-edonistico dei Colli Euganei, nella possibilità di una vita semplice e schietta in seno alla natura e in una piccola società patriarcale e preborghese accanto a uomini autentici, non deformati dalla civilizzazione, nel sentimento consolatore della bellezza, purezza, congenialità sentimentale di Teresa. In questa situazione, fra attrazione vitale e disperata pressione di passioni drammatiche, egli vive in una luce fra radiosa e fosca, pur sentendosi sempre sull’orlo di un abisso e in una provvisorietà estrema. Ma la difficoltà e l’assurdità del suo sogno si rivelano sempre piú chiaramente a lui, e proprio quando egli tocca la felicità e l’estasi nel bacio di Teresa, tanto piú dolorosamente avverte lo scompenso assoluto fra le sue illusioni e una realtà ostile che si precisa anche nel suo discutibile rispetto per le norme autoritarie e tradizionali di un rapporto familiare: la volontà dell’ambiguo padre di Teresa, le sue ragioni di opportunità, nella convenienza delle nozze della figlia con il ricco, nobile e conformista Odoardo che può salvarlo dalle persecuzioni politiche, la troppo passiva obbedienza filiale della stessa Teresa che egli non vuole turbare e coinvolgere nella sua sorte di esule e di perseguitato politico. Valgano quel che valgano queste remore di un moralismo tradizionale e borghese, esse funzionano nella direzione narrativa-ideale del romanzo, e proprio quella felicità toccata e subito incrinata fa da molla a un piú forte ritmo disperato e catastrofico che esacerba le ferite, i traumi del protagonista, inasprisce il suo crescente disinganno anche nella bellezza della natura che si viene rivelando nei suoi aspetti fosco-romantici e nella sua simpatetica consonanza drammatica con l’animo esacerbato del personaggio: aspetti tempestosi e funerei che vibrano all’unisono con la volontà autodistruttiva e distruttiva del personaggio che romanticamente e con prepotenza individualistica chiede il gemito dell’universo, il romantico Weltschmerz.

Quando poi Jacopo rompe ogni indugio e si risolve a lasciare Teresa e i Colli Euganei nella seconda parte del romanzo, il ritmo narrativo si fa tanto piú concitato, irrequieto, convulso. Il viaggio di Jacopo diventa un «pellegrinaggio angoscioso», il cui significato politico-esistenziale diventa sempre piú predominante. Né in questo convulso errare per l’Italia centrosettentrionale fino ai confini con la Francia manca appunto una motivazione politica attuale che si confonde con l’inquietudine insostenibile del giovane sempre piú incapace di sostenere una vita privata dei suoi valori attivi e confortanti. Ora la passione amorosa capovolge il suo rapporto con la passione politica e con l’ansia della malattia mortale (angoscia, senso del nulla e della assoluta vanità della vita) che prevalgono e guidano lo stesso itinerario errabondo, convulso, ma non tutto casuale dell’esule in patria.

Le tappe dell’itinerario permettono infatti al Foscolo di tratteggiare in toni lividi e polemici la situazione della Repubblica Cisalpina sotto la dominazione francese e nel vano nome della sua indipendenza priva di leggi, culturalmente «infranciosata», invano e retoricamente gloriosa di una tradizione realmente tradita e dimenticata, divisa fra un popolo affamato e ignorante e ceti dirigenti servili ed inetti, di fronte ai quali appaiono del tutto isolate le scarse autorità morali e intellettuali che si ricollegano ai grandi del passato misconosciuti e inoperanti. Ogni tappa comporta una conferma alla disperata esperienza dell’«italiano» e alla sua inutile aspirazione di grandezza operosa di una nuova nazione capace di realizzare, in nuovi valori repubblicani, unitari, indipendentisti, l’eredità gloriosa del passato e invece legata alla sua eredità piú negativa di lotta fratricida e di rissa faziosa (l’episodio della visita al campo di Montaperti). Alfieri è rinchiuso nella sua solitudine sdegnata, Parini foscolianamente atteggiato, ormai deluso nei suoi vani tentativi attivi, predica una disincantata astensione dalla prassi, ma anche il dovere del testimoniare, dello «scrivere», mentre le scene di disordine legislativo di Bologna (dove un povero è condotto al supplizio per un piccolo furto), di indifferenza e ignoranza civile-politica di Milano, si mescolano alla vana esistenza dei sepolcri dei grandi italiani privi di interlocutori congeniali nei tempi di una decadenza tanto piú insopportabile dopo le speranze patriottico-giacobine.

Ancor piú significativo (e insieme legato al ritmo angoscioso del viaggio e al crescente disordine di intenti, al progressivo disgregarsi di ogni soluzione vitale del protagonista sempre piú investito da una cupa vampa di desiderio suicida) sarà il viaggio fino ai confini dell’Italia (con l’intenzione poi vanificata di passare in Francia) dove Jacopo, sullo sfondo di un paesaggio alpino tanto maestoso, quanto orrido e tragico e romanticamente costellato di croci funebri, svolgerà nelle essenziali lettere da Ventimiglia le sue sconvolte, turbinose, tremende meditazioni sulla sorte dell’Italia, delle nazioni, degli uomini. Qui – come abbiamo già detto – il romanzo trova la sua acme tragica, la sua piú profonda motivazione del suicidio. Ormai Jacopo è maturo alla morte e quando (sull’eco rapida di una notizia funebre: la morte del diletto Bertola, che tanto aveva influito sulla sua primissima produzione lirica) gli giungerà la ferale notizia delle nozze di Teresa con Odoardo, cade l’ultima ragione di vita, l’elemento amoroso si converte decisamente in collaboratore del suicidio. La febbre dell’errare, il ritmo frenetico del pellegrinaggio angoscioso si convertono nella decisiva, terminale presa di coscienza di Jacopo che ritornerà ai Colli Euganei per attuarvi la sua decisione suicida. Stravolto e sempre piú traumatizzato dalle esperienze-riflessioni del viaggio, Jacopo rivedrà le terre che lo avevano prima consolato, si soffermerà in una sorta di inquieta calma che nasce dalla scelta decisa e che gli permette di rivedere in modo piú distaccato il suo dramma e di giustificare Teresa da ogni responsabilità della sua morte. Poi il suicidio plutarchiano con il pugnale (via le piú borghesi pistole di Werther!) e la narrazione, nella voce di Lorenzo, dell’agonia, della morte, dello squallido seppellimento.

Il ritmo concitato si è finalmente placato e risolto nella catastrofe che il romanzo aveva prefigurato sin dal principio, ma che – si badi bene – non inutilmente era stata rinviata per farla nascere dal seno di un’esperienza, fra vissuta e immaginata dallo stesso autore, che al Foscolo occorreva ripresentare al suo pubblico in tutte le sue ragioni e in tutte le pieghe di un racconto che solo una considerazione romanzesca astratta può considerare monotono, scontato, inutile.

Del resto la volontà e necessità di questo ritmo drammatico-narrativo è ben evidente in molti casi (meno importa poi se tutti ben realizzati e pienamente funzionanti o con qualche effetto piú goffo, esso stesso giustificabile entro le difficoltà di un cosí nuovo tentativo romanzesco). Ad esempio l’episodio dell’involontario omicidio da parte di Jacopo di un povero contadino travolto dalla sua folle cavalcata notturna, mentre corrisponde alla volontà foscoliana di accrescere la traumatizzazione del suo personaggio coinvolto, seppure involontariamente, nel ritmo malvagio e distruttivo della natura e della stessa vita dei singoli uomini (caratteristico quindi l’accenno ancora enigmatico a tale omicidio nella lettera da Ventimiglia: «la Terra io la ho insanguinata, e il Sole è negro»), caricando cosí anche Jacopo di una colpa e di un rimorso e rendendolo, nel contempo, osservatore inorridito della malvagità della natura e degli uomini e partecipe di tale malvagità, corrisponde insieme ad un calcolo narrativo-drammatico: accrescere il ritmo catastrofico della zona finale con la diretta narrazione (nella lettera del 14 marzo) – preparata attraverso precedenti e sparse oscure allusioni – dell’involontario delitto (involontario, ma provocato dal «forsennato dolore» di Jacopo) durante una cavalcata sfrenata, animata da un desiderio di autodistruzione, sotto un cielo serale oppresso dall’avvicinarsi di un temporale, seguita poi da una notte burrascosa e piena di lugubri particolari e dalla ricerca del personaggio di espiare in «quello sterminio» la sua colpa, successivamente invano cercata di compensare con un donativo alla vedova dell’ucciso, inasprita dalle benedizioni della donna inconsapevole dell’identità dell’uccisore del proprio marito, suggellata da una riflessione amarissima («cosí gli uomini nascono a struggersi scambievolmente!») e da una nuova scena ultraromantica: il viale dell’omicidio sfuggito da tutti gli abitanti, atterriti dalla presunta visitazione di quel luogo maledetto da parte di spiriti e di uccelli notturni e lugubri.

Al ritmo narrativo ben si adegua poi, nell’Ortis, la descrizione del paesaggio. È questo un grande motivo di novità e di fascino, che per la prima volta si presentava nella nostra letteratura (certo non senza gli stimoli di alcuni elementi alfieriani, specie nella Vita e nelle Rime, della forte sollecitazione della celebre versione cesarottiana dei Canti di Ossian e di minori testi preromantici e, per le sollecitazioni europee, anzitutto la lezione del Werther) nella sua accezione romantica di proiezione dello stato d’animo del personaggio narrante ed agente e, insieme, di termine ora di rasserenamento ora, e piú, di stimolo alla concitazione drammatica, alla meditazione tormentosa e cupa.

Prima le forme gracili e idilliche o idillico-elegiache (ma già con squarci profondi di prospettive paesistiche agganciate a meditazioni lugubri) del paesaggio domestico e naturale-educato dei Colli Euganei, poi il progressivo prevalere di un paesaggio tempestoso e sconvolto, coinvolto nella tensione drammatica del personaggio, poi, nel ritorno ai colli nativi, l’incontro di elementi pacanti e di un loro straniamento e di una loro irriconoscibilità che insieme ne esalta una sorta di capovolto vagheggiamento struggente e la qualità delicata di un’intatta bellezza perduta. Tutto è accordato con l’evolversi della vicenda e costituisce una lezione essenziale per la letteratura romantica italiana.

Prosa e lirica, lo stile.

Se il ricorso alla poesia in versi di altri autori è nell’Ortis (al contrario di quanto avveniva nella redazione interrotta del 1798) sobria e funzionale ad una scelta di testi emblematici (soprattutto dell’Alfieri piú catastrofico, specie in corrispondenza con la preparazione diretta del suicidio), la sua prosa lievita in aperture verso una prosa poetica densa e ricca di movimenti idillico-elegiaci, elegiaci, drammatici. Diverso da un narratore puro e antilirico, il Foscolo dell’Ortis è sempre pronto a salire di tono verso la lirica sia preparando movimenti lirici postortisiani suoi (i grandi sonetti, la grande Ode, i Sepolcri), sia fornendo l’abbrivio alla lirica leopardiana: si pensi in questa ultima direzione, che tanto ci dice della potenzialità complessa dell’Ortis anche nei confronti del grandissimo Giacomo Leopardi, alla iniziata descrizione della natura «dopo la tempesta» («l’aria torna tranquilla...», nella lettera del 20 novembre 1797).

Saranno brevi liriche in prosa livide e intense («Il cielo è tempestoso: le stelle rare e pallide; e la Luna mezza sepolta fra le nuvole batte con raggi lividi le mie finestre»), saranno movimenti piú larghi e avvolgenti di nostalgia elegiaca e di poesia della memoria («Ho visto le mie montagne...», nell’ultimo frammento entro la narrazione del suicidio da parte di Lorenzo), saranno mescolanze di meditazione e di descrizione lirica (nella lettera del 19 gennaio 1798), saranno piú esplicite descrizioni di paesaggio pausate e penetranti («Una sera d’autunno...» nel Frammento della storia di Lauretta). Tensione lirica che tanto arricchisce la prosa narrativa dell’Ortis e tanto dimostra la fertilità reale e potenziale del grande libro. Quest’opera eccezionale per significato storico-esistenziale è, come abbiamo accennato, opera eccezionale anche da un inseparabile punto di vista artistico e stilistico. Certo si tratta di un libro diseguale, non privo di squilibri interni, di pagine piú goffe e piú frettolose, ma lo stile, nato dall’ingorgo e dall’attrito dei problemi e delle passioni, e dall’irrequieto atteggiarsi del protagonista (con il secondo registro piú obbiettivo delle inserzioni di Lorenzo), ha una sua forte organicità e una fertilità innovatrice eccezionale nella sua capacità di tradurre dinamicamente le spinte contrastanti, luminose, estatiche, persino, seppur raramente, ironiche e sarcastiche, e, piú, cupe, drammatiche, catastrofiche.

Ne nasce una prosa inevitabilmente portata agli eccessi enfatici, lacrimosi, agonistici, e viceversa edonistici e idillico-elegiaci che spesso han fermato e fermano il lettore piú sprovveduto, ma che nel loro attenuarsi e fondersi creano sorprendenti effetti ora di tensione travolgente, ora di distensione incantata, ora di cupo tormento cui la stessa parola è sottoposta, forzata e impiegata con un nuovissimo senso del suo valore intero e stimolante. Già il Foscolo stesso nella Notizia bibliografica cosí difendeva il linguaggio, lo stile in cui parla il suo Jacopo: «Il suo stile piglia improvvisamente vari colori dalla molteplicità degli oggetti; i suoi pensieri sono disordinati: e nondimeno lo stile ha sempre uno stesso tenore mantenuto dal carattere dell’individuo; e il disordine forma un tutto che si direbbe composto armonicamente di dissonanze. Che importa che usi vocaboli antiquati, idiotismi toscani, locuzioni create da lui? Questa: Tu m’hai inchiodata la disperazione nel cuore, qui è strana a dir vero; ma la si vegga ove sta, e dopo di avere percorse le lettere precedenti: e allora entrando nello stato di Jacopo, si sentirà l’energia e non la stranezza di questa frase. La ruggine dell’antichità in que’ vocaboli è emendata dall’evidenza; l’idiotismo, dalla proprietà; la stranezza, dalla necessità: e le parole suonano sí forti al cuore di chi le scriveva, che non ispiccano agli occhi; né s’ha tempo né sangue freddo da considerarle col microscopio grammaticale: e guai a chi sgomentandosi di questo stromento nelle altrui mani, se ne serve un po’ troppo: sarà senza critici ma senza lettori. Che monta la spezzatura del periodo, se l’unità del sentimento è sempre piena, intera, crescente? e la diversità degli elementi, se tutti fanno una maniera sola e coerente in ogni parte a sé sola; ed è nella sostanza e nelle forme italiana? Non per altro è stile imitabile; perché né le passioni, né le azioni, né il modo di concepire d’un individuo è imitabile; e chi scriverà de’ libri secondando la propria natura, farà meno fatica, e darà meno noja a’ lettori».

L’«inchiostro» con cui l’Ortis fu scritto è veramente nuovo ed ignoto (come è stato detto da un critico) alla vecchia letteratura italiana e da quella prosa comincia la storia della prosa italiana dell’Ottocento. Chi si ferma all’uso di parole antiquate e libresche o di stilemi di esagerazione enfatica e lacrimosa non ha capito il fondo ferito e vitale del libro, la sua carica esplosiva e centrale, immessa nel movimento di una personalità creativa in divenire, alla ricerca attiva di un’espressione varia, duttile, ma mai esangue, anzi congesta di una pressione interna estrema. Cosí gli apparenti difetti si cambiano in necessarie esasperazioni di un linguaggio mescolato, composito, spregiudicato, al polo opposto di un esercizio letterario freddo e troppo facilmente equilibrato.

Fortuna.

Quando l’Ortis uscí nel 1802 le reazioni immediate degli uomini delle vecchie generazioni, che pur tanto avevano contribuito allo svecchiamento e all’europeizzazione della nostra letteratura in direzione preromantica, furono di ammirazione e di sbigottimento, tanto quel libro superava l’ambito piú moderato del loro gusto letterario e della loro concezione vitale rimasta sempre, tutto sommato, troppo letteraria e paurosa di una letteratura-vita consequenziaria. Valga per tutti il giudizio che il Cesarotti esprimeva in una lettera al suo giovane amico e ideale, ma irrequietissimo allievo: «Del tuo Ortis non ho voglia di parlarne. Esso mi desta compassione, ammirazione e ribrezzo... Esso è un’opera scritta da un Genio in un accesso di febbre maligna, d’una sublimità micidiale e d’una eccellenza venefica». Ben diversa la reazione entusiastica dei giovani, fino alla formazione di una specie di contagio ortisiano che il Foscolo maturo si rammaricava di aver acceso e diffuso proprio fra i giovani. Poi, mentre l’Ortis è coinvolto nella polemica pro e contro il Foscolo che caratterizza la zona risorgimentale nei due opposti versanti delle correnti cattoliche-spiritualistiche, reazionarie o moderate, e di quelle laiche e piú fortemente nazionali e democratiche (al centro prima Mazzini, poi Cattaneo), esso diventa nel pieno Risorgimento un libro di educazione patriottica e sentimentale romantica, avendo trovato le sue piú profonde ripercussioni nel Leopardi (che tanto ne risentí sulla via delle illusioni e del pessimismo) e agendo, a vario livello e con elementi di stimolo e limite, nella prosa e nell’educazione sentimentali di tanti scrittori romantici e postromantici (si pensi a Guerrazzi o a Nievo o a Carducci, agli Scapigliati, alla formazione di tanti degli stessi realisti fine Ottocento).

Intanto la critica superava la precedente opposta demolizione o esaltazione nel grande giudizio storico desanctisiano, per poi aggredire l’Ortis con piú attenta e minuta analisi nel periodo del metodo storico-positivistico e poi in quello idealistico crociano e postcrociano (Donadoni, Croce, Fubini, De Robertis, Russo), evidenziando insieme il valore dell’opera in sé e il suo carattere di «vivaio» dei motivi della successiva attività poetica foscoliana, fino a un recente intreccio di ripulse di gusto e di ipervalutazioni tese a bloccare il Foscolo in questo libro giovanile.

Ma la linea portante della critica e del gusto piú seri non ha dimesso la sua valutazione alta e storica dell’Ortis, permettendo anche alla zona piú militante della letteratura di recuperare – specie nella chiave di una espressione di crisi e di disperazione storico-esistenziale – un libro che resta essenziale, con la sua forza e i suoi stessi limiti, nella storia della nostra narrativa e nella storia della nostra civiltà ottocentesca.


1 Forse a chiarire la difficile posizione foscoliana gioverebbe (come qui non si può fare) riavvicinarla a quella – pur diversa – del dramma storico di Hölderlin quale è stato interpretato piú recentemente da un tipo di critica che l’ha configurato (fino alla ripresa della tragedia di Peter Weiss) come risultato della frustrazione delle sue speranze rivoluzionarie, sottraendo Foscolo alla pura e semplice linea risorgimentale e insieme sentendo quanto i motivi unitari-indipendentistici fossero parte integrante della stessa posizione giacobina specie nella situazione italiana.

2 Foscolo aveva ben intuito come la vera forza della letteratura italiana moderna fosse costituita dall’Alfieri, tanto piú grande e diverso da quello scabro e raggelato rappresentatore di «astratti furori» e di archeologiche vicende chiuse in un linguaggio vecchio e incomunicabile che una recente semplicistica convenzione ha finito in gran parte per imporre all’opinione corrente.